Introduzione di Elio Zorzi (1892-1955) alla quinta edizione del 1915 di Curiosità Veneziane di Giuseppe Tassini.
La prima edizione delle «Curiosità veneziane» risale al 1863. La pubblicò la Premiata Tipografia di Gio. Cecchini, în due volumi, in ottavo piccolo.
Fuvvi tempo — scriveva il Tassini come prefazione — in cui curiosità ci spinse ad indagare l’origine delle Denominazioni Stradali di Venezia. Siccome però alcuni altri eransi accinti all’opera medesima con meno prospero successo, servendosi di soli libri stampati, così noi volemmo ricorrere, oltre che a questi, alle copiose memorie manoscritte, che si conservano nelle biblioteche e negli archivi della nostra città. Ci demmo quindi a svolgere i documenti delle: Chiese, delle Corporazioni Religiose, e degli Istituti di Beneficenza; molte Cronache tanto di Storia patria, quanto di famiglie nobili e popolari, le Prove di Nobiltà, i Privilegi ed i Processi di Cittadinanza Originaria, i Catasti ed i Traslati dei beni, le Anagrafi dei Provveditori alla Sanità, i Necrologi dei medesimi, e quelli delle Parrocchie, alcuni Testamenti, le Mariegole delle Scuole Grandi, e varie di quelle dell’Arti, nonché diverse leggi delle Venete Magistrature. Perché poi la nostra fatica non riuscisse nuda di troppo; ove, verbigrazia; ci siamo abbattuti in una Chiesa, in un Monastero, in una Scuola, od in un Ospizio di Carità, vi aggiungemmo a compendio la storia; ove abbiamo nominato un Palazzo, toccammo del suo stile architettonico, e dei vari proprietari a cui esso appartenne; ove ci venne fra la penna il cognome d’una famiglia, abbiamo esposto il paese,e l’epoca della sua venuta co’ suoi fasti; ove parlammo d’un’Arte, abbiamo additato l’anno della sua riduzione in corpo, il Santo, che venerava, il sito in cui raccoglievasi, e le sue leggi principali. Nostra cura finalmente fu quella di notare gli avvenimenti più importanti, onde furono teatro le parrocchie e le strade prese per tema dei nostri articoli, e le persone memorabili che vi ebbero domicilio.
Quanto al metodo, seguimmo il lessicografico, siccome quello che scusa le ripetizioni, e risponde a colpo d’occhio alle ricerche. Quanto alla Nomenclatura Stradale, ci attenemmo all’Anagrafi impressa per cura del Municipio nel 1841, non senza introdurvi quei piccoli cambiamenti che da quell’epoca fino ai nostri giorni successero. Ecco come compimmo l’opera nostra, e, compiuta ch’essa fu, ci avvedemmo essere verissimo quanto per altri fu scritto, che, investigando l’origine dei nomi delle vie, si viene aderivare nuove fonti alla storia. Ora non ci restano che due uffici da soddisfare. Il primo è quello di render grazie a coloro che ci furono larghi d’ajuti, fra i quali citeremo i Preposti all’I. R. Archivio Generale, all’I. R. Archivio Notarile, ed all’I. R. Biblioteca Marciana, nonché il cav. Emmanuele Cicogna, vero specchio di erudizione e cortesia.
Consiste il secondo nel chiedere venia al benigno lettore per quei mancamenti od inesattezze che incontrar si potessero nel corso dell’opera, mancamenti ed inesattezze quasi impossibili ad evitarsi in un complesso di notizie tanto lontane e disparate. In tale proposito corra anche per noi la scusa del poeta:
«Quod potui feci; faciant meliora potentes».
I due volumi contavano complessivamente 722 pagine; avevano una copiosa errata-corrige, un indice, e una quindicina di pagine d’appendice, comprendente «alcune voci omesse» e «aggiunte e rettificazioni».
La seconda edizione porta la data del 1872, ed esce dallo Stabilimento Tipografico Grimaldo e C.
«La prima edizione di quest’opera ben presto venne esaurita» — confidano ai «benigni lettori» gli Editori in una brevissima introduzione — ed ora pochissime copie se ne possono ritrovare in commercio».
E proseguono: «Abbiamo voluto pertanto soddisfare alle ripetute ricerche con una ristampa, al che non pure acconsenti il ch. Autore, ma volle da capo a fondo rivedere il proprio lavoro, facendovi moltissime aggiunte, e le variazioni comandate dai cambiamenti topografici avvenuti dal 1863 all’anno presente». Per contro in questa edizione manca l’indice.
Nella successiva terza edizione, stampata nello Stabilimento lito-tipografico di M. Fontana nel 1882, in unico volume di 688 pagine in sedicesimo, manca invece la prefazione; che manca anche nella quarta, stampata nella tipografia dell’Ancora di Alzetta e Merlo nel 1887. Questa, dell’87 — un volume di 869 pagine in ottavo — è l’ultima edizione, che sia stata curata personalmente dal Tassini. Quando infatti, nel 1915, l’editore Giusto Fuga fece la quinta edizione dell’opera, Giuseppe Tassini era già morto da sedici anni. L’edizione fondamentale rimase pertanto la quarta; e su quella fece la sua ristampa Giusto Fuga, dopo aver rilevato dagli eredi Alzetta il fondo residuo della loro edizione.
Oggi, mentre si licenzia al pubblico una sesta edizione, si deve pur convenire che l’opera del Tassini — imitata in altre città, ma non superata — è viva tuttora, come quando vide la luce per la prima volta; che è fresca, utile e perfettibile, e può essere ancora oggetto di belle imprese editoriali ed erudite, oltre che di inesausto interessamento da parte del pubblico.
Giuseppe Tassini apparteneva ad una vecchia famiglia della borghesia veneziana. Egli stesso, nelle sue «Curiosità», sotto la voce San Felice (Parrocchia, Fondamenta, Rio, Ponte, etc.) ricorda che, nel Settecento, al Ponte di San Felice un suo parente possedeva una casa, nella quale soleva radunarsi l’accademia dei Seguaci di Talia, una delle tante accademie di filodrammatici, che pullulavano in quel tempo. E cita un brano della Gazzetta Urbana del 1787, nella quale si parla dell’Accademia e della casa di Antonio Tassini.
Il nonno di Giuseppe era vissuto per parecchi anni a Costantinopoli, ai servizii della Repubblica addetto agli uffici del Bailo, o Ambasciatore della Serenissima presso la Sublime Porta. Ed a Costantinopoli era nato nel 1781 Carlo Tassini, padre di Giuseppe.
Caduta la Repubblica i Tassini erano tornati a Venezia, e Carlo aveva intrapreso la carriera di ufficiale commissario nella I. R. Veneta Marina Austriaca, raggiungendovi il grado di Commissario. Maggiore. Con tale grado nel 1848, egli accorse a prestare t suoi servigi nella Marina Veneziana, ed alla difesa di Venezia si arruolava, col grado di tenente di piazza, anche il figlio suo, Giuseppe.
Carlo Tassini s’era sposato due volte. Dalla prima gli Maria Furlani, aveva avuto un figlio, Giulio. Rimasto vedovo, s’era sposato una seconda volta con Elisabetta nobile de Wasserfall, figlia d’un colonnello dell’esercito imperial-regio. Da questo secondo matrimonio era nato, il 12 novembre 1827, Giuseppe Tassini,1
Giuseppe Tassini aveva avuto una gioventù piuttosto disordinata. Avviato agli studi giuridici all’Università di Padova, egli li aveva trascurati ostentatamente, per darsi buon tempo, godendosi quel po” di ben di Dio che la sorte gli aveva concesso, e che il padre non gli lesinava. «Nasso da pare turco e da mare todesca, no posso esser che strambo» amava dire di sè il giovane scioperato.
Dopo l’epopea quarantottesca egli aveva anche sacrificato alle muse, con due poemetti scherzosi in sestine, inspirati al notissimo Naso del Guadagnoli. Questi componimenti — La Barba e Gli occhiali — furono pubblicati nel 1852, il primo coi tipi dello stampatore Milesi, il secondo, pochi mesi dopo, dal tipografo Grimaldo.
Nel 1858 era morto Carlo Tassini. Allora Giuseppe aveva ‘messo la testa a partito. Aveva ripreso gli studi, ed a quasi trentatre anni — il 26 gennaio 1860 — aveva ricevuto il lauro dottorale in utroque nello Studio di Padova. S’era, poi, dedicato all’amministrazione dei suoi beni — poiché il padre gli aveva lasciato parecchie case in Venezia, e un bel podere in quel di Scorzè — e a nuovi studi, ai quali, frattanto, s’era andato orientanto il suo spirito: gli studi su Venezia e sulla sua storia.
La nomenclatura delle strade veneziane, formatasi nei secoli e, più o meno, sempre rispettata, perfino al tempo dell’unione di Venezia al Regno Italico, non era stata mai studiata e illustrata a fondo prima del Tassini.
Nel Settecento Tommaso Temanza, con la sua illustrazione di un’antica pianta di Venezia, Flaminio Corner, con le sue Chiese e Monasteri di Venezia, l’abate Gallicciolli, con le sue Memorie Venete antiche profane ed ecclesiastiche, avevano offerto agli studiosi, anche in questo campo, miniere di preziose notizie; e altrettanto aveva fatto nel primo Ottocento Emmanuele Antonio Cicogna, con la monumentale opera sulle Iscrizioni veneziane.
Più particolarmente alla configurazione topografica della città, alla sua viabilità, e, per conseguenza, alla nomenclatura stradale si era volto Giovanni Battista Paganuzzi, pubblicando nel 1821 una Iconografia delle Trenta Parrocchie di Venezia, raccolta di altrettante tavole topografiche, corredate da brevi illustrazioni.
«Valendomi — scriveva il Paganuzzi nella Prefazione dell’opera sua — della penna di non incolto patrio scrittore, accompagnerò ogni tabella di una succinta descrizione contenente l’origine della Parrocchia, le aggiunte che le si fecero colla concentrazione… (ai tempi napoleonici) …, non che la ragione de’ nomi, onde sono distinte le principali situazioni, di sovente ben diversa da quella che i non istrutti delle Venete antichità, immaginare, o interrogati sogliono addurre».
Il «non incolto patrio scrittore», del quale s’era valso il Paganuzzi era l’abate Gian Maria Dezan, autore della notissima opera agiografica «Quaranta immagini di santi e beati veneziani». Egli s’era però limitato a dar sull’origine della nomenclatura stradale poche notizie sommarie, non senza incorrere in numerose inesattezze, che verranno, molto più tardi, rettificate da Giuseppe Tassini.
Nel 1844 usciva dallo Stabilimento Tipografico e Litografico di Gio. Cecchini e Compagno, per opera di Antonio Quadri, I. R. Consigliere, la Descrizione Topografica di Venezia e delle adjacenti lagune, corredata di 32 tavole. E due anni dopo, a cura e spese di Bernardo e Gaetano Combatti, la Tipografia di Pietro Naratovich mandava fuori una Nuova planimetria della Città di Venezia «divisa in venti tavole ‘compilate e disegnate da Bernardo Combatti già ufficiale del Genio Militare, ora presso PI. R. Contabilità Centrale Veneta, e da Gaetano Combatti; particolareggiata minutamente nel Caseggiato e nello Stradale, nelle Chiese, negli Stabilimenti publici e Palagi, giuntavi la distinta della nomenclatura stradale secondo la progressione dei numeri anagrafici, con illustrazioni topografiche, statistiche e storiche di Francesco Berlan»2
Tanto l’opera del Quadri, quando quella del. Berlan portavano certamente un buon contributo all’illustrazione della nomenclatura; ma né l’uno, né l’altro compivano una vera e propria revisione critica della nomenclatura sulla base delle fonti, e pertanto né l’uno, né l’altro compiva opera veramente definitiva, fondata sopra una documentazione sicura. Questo compito era riservato a Giuseppe Tassini.
Quando, fresco di studi, attratto dalle «curiosità «— come egli stesso racconta — volle «indagare l’origine delle denominazioni stradali», egli non accettò sic et simpliciter le opinioni accreditate, le sentenze dei maestri, le tradizioni antiche 0 popolari. Cercò di documentare tutte le sue asserzioni; indagò veramente, negli archivi pubblici e privati, dove e come poté, sulla vera origine d’ogni singola denominazione stradale; è così riuscì non soltanto a rettificare moltissime inesattezze, fantasie e leggende, che da tutti i suoi predecessori erano siate accettate per verità, ma a creare un vero e proprio monumento di storia patria, non indegno di essere annoverato tra i maggiori.
Egli però, nel darlo alle stampe; non prese atteggiamenti da grande erudito. Nello stesso titolo, ch’egli diede all’opera sua, v’era una modestia tanto più simpatica, in quanto egli doveva rendersi conto perfettamente della importanza e del valore della propria opera. L’indagine sull’origine dei nomi delle strade gli aveva offerto infatti l’opportunità di rifare, sia pur brevemente, la storia delle chiese, dei palazzi, delle famiglie, delle antiche istituzioni sociali e politiche dei veneziani, ma soprattutto gli aveva dato occasione di pubblicare una messe vastissima di fatti di cronaca e di storia rimasti precedentemente inediti e ignorati, dal complesso dei quali veniva illuminata di nuove luci la vita reale dei Veneziani; vita commista di eroismi e di turpitudini, di splendori e di miserie, com’è sempre stata la vita dei popoli e degli imperi; cronaca pittoresca e complessa, nella quale s’alternano i fattacci di sangue e gli episodi di sublime pietà, le avventure salaci e i racconti di gesta gloriose; materia vibrante, palpitante, che fa di questo libro un’opera sempre viva, come quella che lega, idealmente, la vita moderna del popolo veneziano a quella dei tempi remoti, quando Marco comandava.
Tre anni dopo la pubblicazione delle Curiosità Veneziane, che ebbero un successo per quei tempi straordinario, il Tassini pubblicò la storia di Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite in Venezia sotto la Repubblica, opera che, in seguito, egli arricchì e completò, ripubblicandola, come vedremo, nel 1872.
Nel 1869, con i tipi del Cecchini, il Tassini pubblicava la sua monografia sul Lido, che il Fuga ripubblicò in appendice alla V edizione delle Curiosità, e che con le Curiosità è ristampata anche nella presente edizione.
Poi venne la seconda edizione delle Curiosità, nel 1872.
Nel 1874, il Tassini dava alle stampe una monografia, ricca di documenti, su Veronica Franco. Questo lavoro doveva suscitare una curiosa polemica tra il Tassini, in atteggiamento di difesa, e lo storico Gianjacopo Fontana, in veste di critico indignato e di vindice cavalleresco della memoria di Veronica Franco.
Veronica Franco era naturalmente ben nota anche a quel tempo come poetessa di talento e come una delle donne più belle e corteggiate e leggere del Cinquecento. Ma il Tassini fu il primo che riuscì a documentare tutta la carriera mortale della famosa etèra, che, nata in una vecchia e onorata famiglia cittadinesca, andata sposa giovanissima al medico Francesco Panizza, si votò, con il consenso e l’appoggio della madre, alla prostituzione. Ella aveva all’incirca ventiquattro anni allorché, nel 1570 fu registrata nel Catalogo di tutte le principali et più honorate cortigiane di Venezia (il loro nome et il nome delle loro pieze et le stantie, et etiam il numero de li denari che hanno da pagar quelli gentilhuomini che desiderano entrar nelle sue gratie).
V’era scritto:
Vero. Franca a Santa Maria Formosa Pieza so mare, scudi 2.
E cioè era indicato: l’indirizzo dell’etèra, la mezzana, ch’era sua madre, la signora Paola Fracassa, e il prezzo.
Non occorre ricordare che la geniale cortigiana ebbe fortuna; fu amata da molti uomini insigni del suo tempo, e ne ebbe sei figliuoli, che allevò con amore. Fu visitata ed amata, nel 1574 — quando era nel suo splendore, ed abitava a San Giovanni Grisostomo — da Enrico III Re di Francia e di Polonia, cui fece dono d’un ritratto, che le aveva fatto: il Tintoretto, e d’una corona di sonetti. E quando la giovinezza fu svanita divenne pia, fondò, in parrocchia dei Carmini, un ospizio per peccatrici pentite, dove lasciò il suo ritratto in atteggiamento di penitente, e morì a 45 anni nel 1591 a S. Moisè, lasciando dei suoi ultimi anni memoria edificante, e una somma a beneficio di «due donzelle da bon per il suo maritar, ma se si ritrovasse due meretrici che volessero lasciar la cattiva vita, e maritarsi, a monacharsi, in questo caso ‘sia abrazado, dette due meretrici, et non le donzelle».
Tutte queste cose il Tassini riuscì a documentare minuziosamente; e i documenti raccolse e coordinò nella monografia, che vide la luce nel 1874, col titolo «Veronica Franco celebre letterata e meretrice veneziana».
Il nobile Gianjacopo Fontana, di vecchia famiglia cittadinesca veneziana, ascritta all’Ordine dei Segretari, s’era acquistato qualche rinomanza nei patri studi con alcune opere di divulgazione, tra le quali l’illustrazione dei Cento palazzi di Venezia, quella di Piazza San Marco, e la Storia popolare di Venezia.3
Egli collaborava assiduamente ad un giornaletto politico trisettimanale di battaglia «L’Osservatore Veneto – giornale dell’opposizione», al quale lo stesso Tassini mandava, di tanto in tanto, qualche breve studio. Nei numeri del 30 maggio e del 2 giugno 1874 di questo giornale il Fontana dedicava l’appendice ad un’ampia recensione delle Curiosità Veneziane. Era uscita da poco una nuova impressione della seconda edizione. E il giudizio del Fontana era di pieno e cordiale elogio:
Possiamo dire che raggiunse la meta il Dr. Tassini, facendosi luce coi documenti degli Archivi, perché contansi sulle dita le voci, che non si decifrarono con sicurezza. D’altronde per moltissime, e le più difficili, trovò egli il bandolo della matassa, e ci diede così avverata la sentenza dell’immortale nostro Tommaseo, che i nomi delle contrade e dei luoghi, durando Da lungo corso di secoli, conservano le vestigia della lingua, della storia, delle tradizioni e delle consuetudini antiche.
E più oltre:
Questo lavoro… è redatto dal Dr. Tassini a foggia di cronaca, e se tocca di certi racconti, avanzi superstiziosi, di un’epoca, a cui non si è obbligati di prestar fede, o di deviazioni, alquanto squisite della tralignante umana natura per cui Cavour chiamava la società una festa da ballo in maschera, intrattiene su innumerabili curiosità…
Inoltre il Dr. Tassini innesta alle memorie retrospettive altre di avvenimenti contemporanei, che abbondarono in vario genere nell’epoche a noi vicine, e di cui fummo sincroni testimoni, Trattandosi peraltro di un lavoro molto accuratamente condotto, sulla base di codici, redecime, capitolari, è pregio dell’opera di curare alcune mende; e colmare qualche vuoto…
E qui il Fontana enumerava alcune osservazioni. Corte della Polvere in Frezzeria si sarebbe così chiamata non perché vi fosse una bottega, nella quale si vendeva polvere di Cipro, ma perché vi abitava un tale che la polvere di Cipro produceva; non al Caffè Mori a S. Moisè, ma al Caffè delle Rive si riunivano nell’ora notturna i letterati Francesco Negri, Monti, Pindemonte, etc. Altre osservazioni, d’importanza secondaria, come le precedenti, riguardavano la Corte Fontana e la Corte Gabriela. Infine il Fontana faceva osservare al Tassini — non senza ragione — che quel Cristofolo de Cristofoli, che si recò «da parte della Serenissima» ad «augurarghe bon viazo a Sior Marco Agripa prima che el parta» in palazzo Grimani a Santa Maria Formosa, non era già Missier grando, cioè capo degli sbirri, ma Fante dei cai, e cioè usciere dei tre Capi del Consiglio dei X.
Ma un mese dopo, nell’ «Osservatore» del 1 luglio — e nei seguenti del 4 e del 6 luglio 1874 — il tono del Fontana, che allineava le sue battute critiche sul libro del Tassini dedicato alla Franco sotto il motto «Amicus Plato sed magis amica veritas» era ben diverso.
Con quale fronte ci viene a raccontare il Tassini — scriveva pressa poco il Fontana — che Veronica Franco fosse una meretrice, uno di quegli «astri caduti», una di quelle, «sventure della creazione»? Oibò! Veronica non è mai stata tale. Sarà stata tutt’al più una «moglie anomala», che non avrà saputo resistere alla tentazione di prendersi degli amanti, pur essendo maritata,
Facciasi pur forte il biografo del Catalogo delle cortigiane principali e più onorate, ma con miglior discrezione subito dopo deduca che all’abitazione di una sozza e laida meretrice non si sarebbe permesso di accedere il monarca Enrico III, né con lei si sarebbe intrattenuto, portando seco, al partire, il suo ritratto, opera del Tintoretto.
Eppoi il Tassini stesso dimostra che la Franco ebbe sei figli. Com’è possibile che avesse avuto tanti figliuoli essendo una cortigiana, «non ammettendosi per pubbliche meretrici una soverchia fecondità?».
E prosegue il Fontana:
Chi mai oggidì, dopo che Veronica restituivasi alla redenta coscienza del proprio valore con la valutazione del pentimento, commetterebbe la indiscrezione di rammentarle i giorni della pervertita vita, con la mercede solita del mondo, che spietato ed ingiusto, nega ad un traviamento la compassione, che accorda. agli omicidi ed ai scellerati?
Ciò tutto dedotto, e cavate le prove dalle stesse argomentazioni del biografo, insinueremo; che non isfrondisi l’alloro a chi ben merita della società. e delle lettere; che non pongansi a nudo le debolezze umane, di cui nessuno va esente, e che non bastano ad annientare il valore di un ingegno, e che non si denudi barbaramente del santo velo un nome; da rispettarsi con gratitudine e facendo eco al pensiero di un nostro dotto e carissimo amico Sig. Fapanni,4 aggiungeremo: mon si concorra a far cercare dai gonzi curiosi nelle cloache morali di che passare il gusto, rovinato dalle letture straniere, in tal guisa bensì rendendosi meretricia la letteratura…
All’intemerata del Fontana. risponde il Tassini nell’appendice dello stesso Osservatore veneto dei giorni 14 e 16 luglio 1874. Il Tassini si difende dapprima dalle critiche mosse un mese innanzi dal Fontana alle Curiosità Veneziane, ribattendole tutte vittoriosamente, ma ammettendo, per forza di cose, il proprio torto nei riguardi di Cristofolo de Cristofoli. A risarcirsi tuttavia della sua forzata ammissione egli soggiunge: «Guai d’altra parte al Fontana, se alcuno con occhio troppo severo volesse esaminare i di lui scritti e specialmente la di lui Storia popolare di Venezia, ancora in corso di associazione». E qui cita il giudizio alquanto severo che sull’opera del Fontana aveva dato l’illustre storico Rinaldo Fulin.
Poi il Tassini intraprende la sua autodifesa come biografo di Veronica Franco, accusato d’indiscrezione.
lo non sono pratico — scrive a un dipresso il Tassini — di ginecologia, ma son tuttavia persuaso che il fatto di essere meretrice non impedisca affatto ad una donna di partorire. Non ho mai detto che fosse una sozza e laida meretrice; certo essa fu per alcun tempo meretrice pubblica, ed è probabile che, più tardi, sia divenuta cortigiana privata; niente impedisce di ammettere che, dati i costumi del tempo, Enrico III abbia voluto conoscere ed abbia amato questa bella, intelligente e facile donna. E conclude il Tassini:
Del resto chi ha bell’ingegno può aver cattivi costumi; e Veronica ebbe bell’ingegno e fu meretrice. Chiudo dicendo che io non intesi di fare il panegirico di Veronica Franco, ma di stenderne sopra autentici documenti la vita, e che prima dote dello storico è la veracità.
Come punto da una vespa, il Fontana risponde adiratissimo nell’Osservatore Veneto del 21 luglio 1874 (N. 72) con un articolo intitolato «Due parolette in orecchio al Dottor Tassini per procura di Veronica Franco», nel quale, dopo lunga argomentazione, scrive:
Lo storico deve dire la verità. Conveniamo che occorra, quando però la verità sia utile a dirsi e necessaria. Ma questo non è il caso. Senza un genio maligno, senza una felice tendenza a rilevare certi fatti, non si viene in scena, per piacere a quattro, incontrando la disapprovazione della sana parte del pubblico. Chi ha bell’ingegno, ella scrive, può avere cattivi costumi, e Veronica ebbe ingegno e fu meretrice. Ma la questione non è che avesse avuto quei costumi, ma che uno scrittore fosse tanto indiscreto di avvisarne il pubblico un bel giorno e dirgli a un dipresso: vi presento questa donna alla vostra stima e insieme al vostro disprezzo: sappiate che essa fu letterata celebre, ma anche celebre meretrice.
Del resto — conclude il buon Fontana — noi difendiamo la Franco per difendere Venezia, perché il disonore di Veronica torna a disonore di Venezia.
Nel numero seguente poi dell’Osservatore, 25 luglio 1874, N. 73, il Fontana ritorna sulle Curiosità Veneziane, già da lui elogiate un paio di mesi prima, ribadisce con acrimonia gli appunti che già aveva mossi al Tassini, e scrive per conclusione:
Egli ammannisce (sic) nelle sue Curiosità certi manicaretti superstiziosi, ed è questo uno dei lati deboli dell’opera, in cui apparisce la sua credulità alle fiabe. Nè ciò è tutto. Noi accenniamo alle deviazioni, alquanto squisite, della tralignante umana natura, per cui Cavour chiamava la società una festa da ballo in maschera. È così esprimendoci cavallerescamente volevamo nascondere la parte più brutta del libro, lo scandalo cioè di certe laidezze, che godesi il dottor Tassini di trarre in mostra, onde non può permettersi che il gentil sesso, e meno una ben costumata ragazza svolga quelle pagine a suo bell’agio. Purtroppo è tale il vezzo del giorno di intrattenere su invereconde letture, non certo profittevoli ai sani costumi, e non aventi verun onesto, ragionevole scopo. Anche il Cicogna, buon’anima, nel suo Emporio Iscrizionario, si dilettò a cavare dai codici gli scandali muliebri dei conventi, e con simili ciance impinguare i volumi, che aveva dapprima consacrato alla sola innocente illustrazione delle iscrizioni lapidarie… Ed ecco ora un altro sintomo di contagio morale serpeggiante, l’amo per acchiappare i pesci, cioè i gonzi che ci son sempre, la biografia di Veronica Franco, strombazzata ai quattro venti celebre letterata e meretrice veneziana, piccola scintilla del grande incendio appiccato dal Dottor Tassini, nuovo Erostrato per farsi dar ragione dal mondo. Orazio sol contro Toscana tutta.
Il Tassini non replicò all’attacco del Fontana. Ma, quattordici anni
dopo, ripubblicando il suo studio su Veronica Franco, vi premise la seguente
avvertenza:
Eccomi alla seconda edizione della Veronica Franco essendo, per la benignità del pubblico, esaurita del tutto la prima. Allorquando quest’opera vide la luce nel 1874 la buon’anima di Gian Jacopo Fontana le si scagliò contro con alcuni articoli, inseriti nel periodico Osservatore veneziano e raccolti poscia in un opuscolo con il titolo Veronica Franco. Difesa di Gian Jacopo Fontana contro il Dottor Giuseppe Tassini.
Io non ebbi a ricredermi allora di quanto scrissi, né mi ricredo adesso, dopo nuovi studi fatti sull’argomento. La mia Veronica, adunque, se togli qualche piccola innovazione, qualche aggiunta ed il corredo di alcuni documenti, ricompare in sostanza quale era prima. Accondiscesi soltanto a cangiare nel frontespizio il vocabolo meretrice con quello di cortigiana. È una concessione fatta alla suscettibilità di qualche schizzinoso.
Né l’intemerata del buon Fontana era valsa a distogliere il Tassini da ulteriori «indiscrezioni» poiché nel 1877, quando il R. Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti bandì un concorso a premio per una Storia di Venezia nella vita privata, il Tassini volle cimentarvisi. Ma egli non aveva ancora terminato il suo lavoro, quando scadeva l’ultimo termine del concorso. Il premio fu aggiudicato ad un giovane debuttante, Pompeo Gherardo Molmenti, «nè senza giustizia», Scrisse lo stesso Tassini; il quale utilizzò più tardi il suo lavoro per cavarne un opuscolo anonimo su Il libertinaggio a Venezia, che vide la luce nel 18865 e successivamente un secondo ‘opuscolo dedicato a «Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi veneziani».
Poco appresso il Tassini diede alle stampe «Alcuni palazzi ed antichi edifizii di Venezia storicamente illustrati» (Tipografia M. Fontana, 1879), opera nella quale dava notizie abbastanza ampie, moltissime delle quali inedite, e tutte controllate su documenti originali, intorno a ben centonovantadue palazzi veneziani. Quasi a integrazione di questa, venne sei ‘anni dopo un’altra opera del Tassini: «Edifici di Venezia distrutti o volti ad uso diverso da quello a cui furono in origine destinati» (Venezia, Reale Tipografia G. Cecchini, 1885).
In un volume di centotrenta pagine il Tassini elencava, narrandone in succinto la storia antica e le vicende recenti, duecento ottantotto edifici che, dalla caduta della Repubblica all’epoca nella quale l’autore: scriveva, erano stati — come dice il titolo — distrutti o volti ad uso diverso dell’originario in Venezia, escluse le isole di S. Giorgio Maggiore e della Giudecca. Era un elenco interessantissimo’ sotto ogni punto di vista, ma soprattutto una dimostrazione impressionante delle distruzioni, alle quali il nefasto governo Italico prima, poi © vandali pubblici e privati — a cominciare dal Comune di Venezia — s’erano abbandonati sul corpo della città, disertata dai suoi legittimi reggitori. Prima del Tassini s’era occupato della stessa materia l’ab. Sante dalla Valentina, cappellano della Scuola di S. Rocco.6 «Ma oltreché il suo è quasi un nudo catalogo, vi sono omessi gli edifici profani», avverte lo stesso Tassini. Ed avverte ancora: «Deliberatamente poi ci siamo astenuti dal parlare di S. Giorgio Maggiore e della Giudecca, quantunque queste due isole sì considerino congiunte a Venezia. Ne parleremo un’altra fiata, se ci sarà dato di pubblicare un altro volumetto risguardante gli edifici demoliti, o trasformati dell’isole della nostra laguna».
Ma l’«altra fiata» non si ripresentò al nostro autore. Al quale invece si offerse, tra la fine del 1889 e il principio del 1890 l’opportunità di raccogliere, in un opuscoletto di trenta pagine, le sue «Osservazioni critiche sopra le innovazioni praticate recentemente nella nomenclatura stradale di Venezia», che furon pubblicate come appendice alle «Curiosità Veneziane» in occasione di una nuova impressione che gli Editori Alzeita e Merlo fecero, nel 1890, della quarta edizione delle Curiosità. Scriveva il Tassini:
Siamo all’epoca dei cangiamenti. Qual meraviglia adunque se pensossi di cangiare anche le denominazioni stradali della nostra città? A tale scopo, fino dal 1876, venne istituita un’apposita commissione, che, sotto la presidenza dell’assessore conte Tornielli, raccoglievasi nelle aule Municipali a studiare, e deliberare sull’argomento. Essa però, qualsivoglia ne fosse il motivo, credette bene d’andar tanto per le lunghe, che soltanto tredici anni dopo, cioè nel 1889, i beati cangiamenti fecero capolino per le nostre contrade. Ai quali cangiamenti, parlando in generale, ci dichiariamo contrari tanto per rispetto alle patrie antichità, quanto per la confusione che da essi deriva, specialmente in una città, quale è Venezia. E notisi che qui, salvo poche eccezioni, non si volle nemmeno sottoporre in iscritto alle denominazioni nuove le antiche, come praticossi in altre città d’Italia.
Perché si vegga poi come sia riuscito il lavoro indetto dal Municipio, noi, approfittando della nuova emissione delle nostre Curiosità Veneziane, fatta dagli editori Alzetta e Merlo, aderimmo ad aggiungervi un’appendice, nella quale, sorvolando di sestiere in sestiere, si contrappongono ai nomi vecchi i recenti, si danno di quest’ultimi le spiegazioni, ed, ove ci parvero inutili, od errati, si va facendo sopra i medesimi analoghe osservazioni.
Delle osservazioni, numerose e assennatissime, che fece allora il Tassini, fu tenuto conto più tardi, quando, specialmente per opera dell’Amministrazione Comunale presieduta dal N. H. Filippo Grimani (1895-1919) si fecero varie revisioni parziali della nomenclatura stradale, alle quali lo stesso Tassini fu chiamato a partecipare in qualità di Membro della Commissione Municipale per le Denominazioni stradali (1896-99). Ma, d’altra parte, non poche delle modificazioni effettuate nell’89 erano state deliberate proprio in accoglimento delle rettifiche che, nelle sue Curiosità, il Tassini era riuscito a portare ai nomi di talune strade, deformati dall’uso popolare, o da errori della burocrazia.
Tipico, come esempio di errori burocratici, quello, che il Tassini rileva nelle sue Osservazioni: la corte Coppo, a San Luca, venne mutata, per un errore materiale di transcrizione, in corte Toppo, e tale dovette rimanere alcuni anni, prima che gli uffici municipali, riconoscendo il loro proprio errore, si adattassero a correggerlo.
Il Tassini poi, giustamente, protestava contro gli sciocchi scrupoli, per i quali venivano cancellati e sostituiti certi nomi, che non sembrassero abbastanza decenti ai pudibondi amministratori. Così, per esempio, egli lamentava la soppressione di alcune Calli e Corti della Scoazzera.7
Nello stesso anno 1890 il Tassini pubblicava (Stabilimento tipo-litografico successori M. Fontana, pag. 186, in ottavo) un’opereita dedicata a «Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi Veneziani», che l’autore elencava diligentemente, e dei quali illustrava le origini e i secolari svolgimenti, corredando il suo lavoro di riferimenti numerosi a documenti inediti ed a fonti erudite, senza però mai dipartirsi da quella piacevolezza di stile, che era nella natura dello scrittore.
A quest’epoca, tra il 1889 e il 1895, riteniamo debba attribuirsi un’altra operetta del Tassini: l’opuscolo «Sei Caffè di Venezia», mel quale sono illustrate in poche pagine e con piacevole erudizione aneddotica le vicende del Caffè Florian, del Quadri, dell’Orientale, del Vittoria, del Caffè della Nave e del Caffè Lazzaroni. L’opuscolo, stampato dalla Tipografia Compositori (Società di Mutuo Soccorso tra Compositori Tipografi) non reca indicazione dell’anno.8
È invece del 1892 la nuova edizione del suo lavoro su «Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite in Venezia sotto la Repubblica», che rivede la luce (Stabilimento tipo-litografico successori M. Fontana), in un bel volume di 291 pagine, con copertina nera a lettere d’oro.
Nel volume, che non ha indice, sono illustrate, con racconto piano e diffuso, corredato di numerose note, novanta condanne più clamorose, da quella del Doge Obelerio Antenoreo che fu impiccato per ordine del Doge Giovanni Partecipazio nell’829, a quella del villano Pietro Lucchese, che uccise in Caneva di Sacile il veneto Podestà Pietro Cesare Corner, e fu impiccato il 22 settembre 1791, chiudendo la serie dei giustiziati sotto il governo veneto.
Di questa serie il Tassini dà un elenco, che, per quanto ci consta, è ancora il più completo e il meno inesatto che ci sia.
Frattanto, il Tassini iniziava un’attività nuova, che doveva durare tre anni, e che doveva completare la sua figura di curioso ed erudito ricercatore di storie antiche con quella di arguto annotatore di moderne cronache. Dal 1892 al 1894 il Tassini si fece infatti compilatore anonimo, ma generalmente conosciuto, di un almanacco: «Il Veridico – Diario storico veneziano».9
Quand’anco l’attribuzione di questo «Diario storico» non fosse sicura, com’è, parrebbe di poterne individuare subito il compilatore attraverso lo stile caratteristico del Tassini, ed attraverso la sua mentalità di erudito filosofo, che dà importanza ai fatti di coltura, ma non disdegna quelli di cronaca, e che ama dire la sua opinione critica condita dei sali dell’arguzia e dell’ironia sugli avvenimenti politici.
Vogliamo vederne qualche esempio?
Ecco la notizia dell’erudito:
1892 – 1 Febbraio — Riferiscono i giornali che il Municipio acquistò una scala artistica di legno, a balaustrate, di stile ogivale, unica nel suo genere fra noi, la quale ritrovavasi a S. M. Mater Domini in una antica casa che abbiamo alcuni dati per credere appartenesse alla cittadinesca famiglia Agnello o dall’Agnella, donde prese il nome di prossimo ponte. Questa scala sarà conservata nel patrio Museo.
Ma ecco, poco dopo, il cronista malizioso:
23 Febbraio — Splendida festa di ballo dato la notte trascorsa dal Duca di Genova in Palazzo Reale a circa seicento invitati. Il Gazzettino, giornaletto democratico, dice che la spesa ammonti a circa 40 mila lire italiane, e, come è facile immaginarsi, deplora lo sperpero,
Qui poi (siamo nel 1893) è soltanto il cittadino che sta di casa a San Marco, che frequenta i caffè della contrada, e che protesta:
13 Febbraio — Si spera una riforma di questa benedetta legge sulla prostituzione. Le meretrici invadono tutti i luoghi pubblici, e vi si portano indecentemente. Tre sono i Caffè da esse prescelti: il Padiglione, la Nave ed i Secretari, ove praticano fino a tarda notte. Si possono immaginare i chiassi che vi succedono, condivisi dalle schiere dei loro adoratori.
Questa legge sulla prostituzione doveva star molto a cuore al buon Tassini, perché ritorna più volte sull’argomento nel Diario, e tira un sospiro di sollievo, quando può finalmente annunziare che la legge è stata varata.
Ma riaffiora l’erudito:
4 Marzo — Ieri, muovendosi il suolo di un magazzino in Campo S. Andrea si scoprirono venti lapidi sepolcrali di pregio dei sec. e XVI con iscrizioni riferibili in gran parte a famiglie patrizie. Verranno depositate nel patrio Museo.
Il magazzino era in origine la Scuola di S. Andrea, che nel 1622 fu cessa dalle monache alla confraternita dei Burchieri da Rovinazzi e Cava Fanghi.
Poi siamo alla politica:
23 Aprile — Ieri si festeggiarono anche a Venezia le nozze dei Reali Sabaudi. Varie associazioni si recarono processionalmente a Ca’ Farsetti per esprimere gli auguri della cittadinanza da trasmettersi a Roma. La Giunta Municipale, in cui predomina l’elemento radicale, credette bene però di non partecipare alla dimostrazione, sotto il pretesto di lasciarle il suo carattere popolare. La sera seguì l’illuminazione della Piazza e Piazzetta, suonarono due bande, e due teatri furono illuminati a giorno. Alcuni si lamentarono che non s’abbia cantato il Te deum nella cattedrale, e che in città abbia regnato poco entusiasmo. In tale proposito bisogna considerare che per quanto i Reali Sabaudi sieno degni, nelle loro personalità, d’ossequio e d’affetto, troppo cattivo è l’attuale governo, e troppa la miseria della popolazione perché gli entusiasmi non abbiano a raffreddarsi. L’attuale stato di cose raffredderia, come direbbe la buon’anima di Pietro Aretino, le fornaci di Murano.
Molto interessanti e curiose per la storia della vita veneziana sullo scorcio dell’ Ottocento le annotazioni che «il Veridico» fa nel 1894.
24 Aprile — Nel mese trascorso a Padova un giovane coscritto di cavalleria, per nome Francesco Evangelista, cadde più volte da cavallo nelle esercitazioni di caserma e finì col rimetterci la vita. Si sparse fama che egli sia stato segno di maltrattamenti, e di sevizie per parte d’un uffiziale, laonde fu aperta inchiesta, e pende tuttora il giudizio. Questo fatto, gonfiato ad arte dai nemici dell’ordine, eccitò gli animi, e nel trigesimo della morte del soldato provocò una dimostrazione, alla quale presero parte gli studenti dell’Università. Ferruccio Macola, direttore della Gazzetta di Venezia, pubblicò un articolo a loro carico, ed essi mandarono fra noi il prof. De Giovanni, vice rettore, per chiedere una ritrattazione, che non giunse ad ottenere. Allora si recarono in massa nella nostra città, ed andarono a far gazzarra ripetutamente in Campo S. Angelo sotto gli uffizi della Gazzetta, i quali erano protetti da parecchi agenti della pubblica forza, e da due compagnie di soldati. La sera successiva avvennero piazzate per le strade, rincorso di meretrici in Frezzeria, ed ovazioni sotto le finestre della grassa Eleonora nella prossima Piscina. Più tardi, rinnovatisi i tumulti in Piazza San Marco qualche carica contro i ricalcitranti, e si operarono alcuni arresti.
2 Maggio — Dipendentemente dalla vertenza surriferita, ieri ebbe luogo un duello fra il dott. Enrico Tedeschi, e Macola, ed oggi fra lo studente Galli e Macola medesimo. Quest’ultimo in ambidue rimase vincitore. Qui ci sia permesso un’osservazione. I duelli sono proibiti dal Codice Penale. Ora come va che si compiono, annunziati anche qualche giorno prima, in barba all’autorità?
Il 19 ottobre «il Veridico» annota:
Illuminazione e concerto. pell’anniversario dell’installamento del Governo Nazionale in Venezia. Oggi si compiono 28 anni dacché gli italiani (come s’ode a dir comunemente) vennero fra noi.
Evidentemente tassiniana la nota del 22 novembre:
Si prese parte in Consiglio Comunale d’appellare Via Mazzini la nuova strada che, dal Campo di S. Silvestro, mette alla Riva del Ferro, e che, prima dell’allargamento, chiamavasi Calle della Scimmia. Basta che invece di Via Mazzini non iscrivasi Via Massoni o qualche cosa di somigliante, poiché anche all’epoca della rinnovazione della nostra nomenclatura stradale, cioè nel 1889, fu scritto a S. Luca Corte Toppo per Corte Coppo, e si stette anni prima di correggere l’errore.
La nota del 24 novembre 1894 ha un buon sapore di curiosità storica:
Ingresso a Venezia del tanto aspettato patriarca cardinale Giuseppe Sarto. Numeroso fu il corteo di gondole che dal Canal Grande, tappezzato a festa, accompagnaronlo alla. Piazzetta, donde sbarcato recossi alla propria residenza. Colà ricevette tutte le autorità civili e militari, nonché altre rappresentanze, e per due volte salutò e benedisse dal verone il popolo plaudente. In poche occasioni si vide in Venezia così grande concorso ad una solennità ecclesiastica, tanto da sembrare, come scrive il Gazzettino, una. protesta contro il cattivo reggime (sic) civile.
Fu notato che la Giunta non si recò ad accogliere il porporato non fece innalzare il nazionale vessillo sulle antenne della Piazza, non espose bandiere e damaschi municipali, né ordinò l’illuminazione della Piazza e Piazzetta, che pure si fa per ogni bazzeccola.
E guai a toccare al «Veridico» la sua Venezia. Ecco quel ch’egli scrive il 28 dicembre 1894:
Ci fu tolto un altro uffizio, cioè la sede dell’Ispettorato delle Imposte Dirette. È questa la strenna di Natale offerta dal Governo alla nostra città, che, ben a ragione, la Gazzetta qualifica col titolo di mansueta!
Ogni tanto poi riappare nel Diario, con qualche innocente sonetto satirico, il poeta del Naso e degli Occhiali di quaranta anni prima. Ne vogliamo vedere un saggio?
8 Marzo — A rompere la tetraggine delle cose presenti, ci facciamo. lecito di riportare quanto avvenne al Caffè del Ponte dei Frari. Da un mese era morto colà un vecchio gatto, di nome Nini, che faceva la delizia del padrone, e particolarmente delle femmine componenti la di lui famiglia. Alcuni buontemponi, fra gli avventori, vollero onorare il trigesimo della morte del compianto animale, col celebrargli nella bottega una specie di esequie, coniargli apposito medaglione, ove spicca il di lui ritratto, e con discorsi, poesie, ecc. Né si dimenticarono della beneficenza, poiché, al momento della funebre cerimonia, apersero fra gli invitati ed i curiosi una colletta, che fruttò L. 140, a beneficio dei poveri della parrocchia. Alle poesie che si composero in quella circostanza, aggiungiamo il seguente:
SONETTO
È morto il gatto del Caffè dei Frari,
Gatto bel, gatto buon, senza malizia,
Che. pell’accalappiar sorci a dovizia
Già tenne il primo posto fra i suoi pari!Dei suoi padroni fur lunghi ed amari
I lamenti, fu grande la mestizia,
E gli avventori alla crudel notizia
Si poser tutti a lagrimar del pari;Né di ciò paghi dissero: — Issofatto
Coniamo una medaglia, che rammenti
All’età più lontane un tanto gatto!Già nel secolo siam dei monumenti,
E, per un che di più ne vada fatto
Al certo non udrem strillar le genti.
La sospensione delle pubblicazioni del «Veridico» coincide con una ripresa dell’attività erudita del Tassini, che dà alle stampe, nel 1895, le «Iscrizioni della Chiesa e Convento di S. Salvatore in Venezia». E° un opuscolo di 95 pagine in ottavo, edito dalla Tipografia M. S. fra Compositori Tipografi, col quale pare che il Tassini abbia voluto concludere la serie breve delle sue illustrazioni delle iscrizioni contenute nelle chiese veneziane,10 ad integrazione delle lacune rimaste nell’opera monumentale del Cicogna.
Ultima delle opere del Tassini è una raccolta di «Aneddoti storici veneziani», volumetto di 200 pagine, stampato dalla Tipografia della Società di M. S. tra Compositori Tipografi nel 1897. In esso il Tassini, anagrammando il suo nome in quello di G. Nissati, ha riunito centocinquanta aneddoti, tratti in gran parte delle sue «Curiosità», per dedicarli ad Alberto Burini.11
Abbiamo qui elencato del Tassini tutte le pubblicazioni di qualche rilievo. Non possiamo passar sotto silenzio un suo lavoro, ch’è rimasto inedito, ma che costituisce certamente un contributo cospicuo agli studi veneziani: le «Notizie storiche e genealogiche sui Cittadini veneziani», riunite in cinque grossi volumi manoscritti in mezzo foglio, comprendente ciascuno circa 250 pagine, che si custodiscono nel Museo Correr.12
Si tratta di una raccolta di alcune centinaia di genealogie di famiglie cittadinesche, con notizie storiche, schizzi di stemmi, e quante altre indicazioni lo studioso abbia potuto rintracciare. Il lavoro è preceduto da un avvertimento, che ne dice esattamente il valore.13
Con questo suo lavoro, che certamente non è stato né facile, né lieve, Giuseppe Tassini ha voluto fare per l’ordine dei Cittadini originarii quello che il Barbaro, con le sue giustamente famose «Genealogie» aveva fatto due secoli prima per l’ordine patrizio.
L’opera non è compiuta. Ma a chi volesse accingersi ad uno studio metodico complessivo su quella categoria sociale, che ha avuto tanta importanza nella vita della Repubblica, la messe delle notizie raccolte dal Tassini tornerebbe d’immenso vantaggio. E sono notizie — si noti — per la massima parte inedite, salvo quelle poche che sono state pubblicate da Giovanni Dolcetti nei suoi «Libri d’Argento»,14 o quelle delle quali si sia servito
qualche altro raro studioso.
La qualifica di «cittadino», intesa nel senso moderno, e quasi nel senso francese di «borghese» d’una città, compare a Venezia nel 1305, in un decreto del Maggior Consiglio, che accordava la cittadinanza a quanti fossero stati da un certo numero di anni domiciliati a Venezia.
Successivamente, nel 1312, fu fatta una distinzione tra cittadini de intus e quelli de intus et extra. I primi potevano esercitare talune professioni, alcuni determinati pubblici impieghi, e alcune arti principali; gli altri acquistavano il diritto di navigare e di mercanteggiare negli scali del veneto commercio; e se per conseguire la qualità di cittadini de intus bastavano dodici anni di domicilio in Venezia, per quella de intus et extra ne occorrevano diciotto.
A riempire il vuoto prodotto nella popolazione veneziana dalla pestilenza del 1348 fu però concessa la cittadinanza a qualunque forestiere che avesse abitato a Venezia due soli anni, e, nel 1407, sempre allo stesso scopo per accrescere la popolazione, si accordò la cittadinanza a chi avesse sposato una veneziana, e dimorasse con essa nella Dominante. Questa si chiamava «cittadinanza per grazia».
Ma alla metà del Quattrocento la Signoria, volendo dal popolo sceverare un ordine di persone civili e fidate, dal quale trarre il personale necessario per i numerosi e delicati uffici della burocrazia dello Stato, i quali non si riteneva opportuno che venissero occupati dai pur numerosi rampolli dell’ordine patrizio, conferì il titolo, che divenne ambitissimo, di «cittadini originari» a coloro che fossero in grado di provare agli Avogadori de Comun di essere nati, in Venezia o negli Stati Veneti, da genitori legittimi, e da ascendenti di civile condizione per almeno tre generazioni, e di essere immuni da condanne penali.
A questa classe la Repubblica mantenne, fino alla sua caduta, grande onore e prestigio, e da essa traeva il personale della «Cancelleria Ducale», e cioè la burocrazia dello Stato, diviso nelle categorie dei «Ragionati», dei «Segretari circospetti», dei «fedelissimi notai ducali».
Perciò si diceva anche che le famiglie di tali cittadini appartenevano all’«Ordine dei Segretari».
A capo di tutta la classe era il «Cancellier Grande». Primo nell’ordine cittadinesco, dal quale era tratto, e capo di tutti i funzionari o, come si diceva a Venezia, «Ministri» dello Stato, il Cancellier Grande godeva le prerogative, i privilegi e gli onori più alti dopo quelli del Doge e dei Procuratori di San Marco.
I decreti del Doge e le leggi promulgate dal Capo dello Stato non erano validi se non erano controfirmati dal Cancellier Grande; e, analogamente, dovevano sempre esser controfirmati dal rispettivo Segretario i decreti dei reggitori patrizi delle provincie soggette alla Serenissima Dominante, dei Comandanti Generali dell’Armata o dell’Esercito. Gli ambasciatori patrizi, ch’erano quelli di Roma, Costantinopoli, Parigi, Vienna, Madrid e Pietroburgo, avevano accanto il loro Segretario; all’Ordine dei Segretari erano riservate invece altre legazioni considerate minori, come quelle di Napoli, di Torino, di Milano, di Londra, i titolari delle quali avevano il titolo di «Residenti».
L’Ordine dei Cittadini originarii adunque, pur non avendo grado di nobiltà, costituiva una classe distintissima, che, per importanza e per alta considerazione, seguiva immediatamente il Patriziato; e vi fu chi scrisse che, rappresentando l’ordine patrizio la sovranità dello Stato, i cittadini ne rappresentavano la nobiltà.
Formalmente, però, non essendo la cittadinanza grado di nobiltà, molte delle più cospicue famiglie cittadinesche cercarono di ottenere, ed ottennero, la nobiltà vuoi con l’acquisto di feudi nobili o di «carati» di feudo, ai quali erano annessi titoli, che venivano riconosciuti dalla Repubblica, vuoi col sollecitare l’inscrizione ai consigli nobili delle città di terraferma.
Le principali città del Dominio di terraferma s’erano foggiate un ordinamento municipale ad immagine e somiglianza dell’ordinamento della Dominante, e s’erano date, ad imitazione del Maggior Consiglio, un Consiglio Nobile ereditario, l’appartenenza al quale conferiva un grado di nobiltà. Questi Consigli Nobili non potevano essere naturalmente molto restii ad ammettere nel loro seno talune cospicue famiglie di Segretari della Repubblica, che esercitavano un’influenza non trascurabile negli affari dello Stato, e che, in tal modo, si procuravano una distinzione nobiliare non cospicua, ma sufficiente a conferire ad un cittadino l’ambito titolo di «nobile».
Così si spiega come molte famiglie della cittadinanza veneziana figurino come nobili di Padova, o di Vicenza, o Rovigo, o di altre città del Dominio. Esempio tipico quello del notissimo Pietro Antonio Gratarol, il disgraziato protagonista settecentesco del famoso scandalo, che fu originato dalla commedia «Le droghe d’Amore»: egli era cittadino originario di Venezia, e apparteneva all’ordine dei Segretari, ma si qualificava «nobile padovano», perché era ascritto a quel Nobile Consiglio.
All’ordine dei Cittadini originarii venivano passati d’autorità dagli Avogadori de Comun i figli di patrizi nati da matrimoni non approvati dagli Avogadori stessi, cioè da matrimoni irregolari, nei riguardi delle speciali disposizioni riferentesi all’ordine patrizio, in quanto contraiti con donne plebee, o comunque non comprese nelle categorie fissate dalle leggi, o nati fuori di legittime nozze, anche se poi legittimati. E questo spiega il numero abbastanza rilevante di nomi patrizii tra le famiglie cittadinesche.15
I figli, pur legittimi, nati da tali unioni, ed i loro discendenti, perdevano, oltre alla qualità di Patrizio, tutte le prerogative del loro rango, cioè: il diritto di far parte del Maggior Consiglio e l’eleggibilità a tutte le cariche dello Stato; il titolo, a loro esclusivamente spettante, di «Nobiluomo», abbreviato di solito con le sigle «N. H.», e la qualifica di «Ser».
Il titolo di «Nobil Uomo», e la sua sigla «N. H.» sono adesso molto spesso attribuiti erroneamente e assunti abusivamente. Si confonde il titolo di nobiltà unito alla qualità di uomo — nobile uomo — con il titolo caratteristico ed esclusivo del patrizio veneziano. La confusione viene estesa anche al passato. Abbiamo veduto, per esempio, il sopra ricordato Pietro Antonio Gratarol indicato in una commedia come «N. H. Gratarol»..
Come abbiamo già detto, il Gratarol apparteneva invece alla classe dei Cittadini originari e all’ordine dei Circospetti Segretari della Serenissima Signoria, e come molti altri personaggi del suo ordine, soleva frequentare il Caffè dei Segretari, all’imbocco della Calle degli Specchieri, a San Zulian.
In quel Caffè, che rimase aperto fino alla vigilia della conflagrazione europea, soleva quotidianamente soffermarsi Giuseppe Tassini.
E’ tempo ormai che, esaurita la rapida rassegna delle opere del nostro erudito, ricordiamo brevemente qualche tratto della sua vita.
Il Tassini era uomo di carattere sereno ed affabile, ma di abitudini solitarie.
Egli abitava, solo; un appartamento di sua proprietà16 in Corte delle Cariole, a San Zulian. La porta della sua casa dava nell’oscuro e angusto sottoportico delle Cariole, che s’apriva17 a metà circa della Calle degli Specchieri.
Pur con poche stanze, la casa conteneva una ricca biblioteca, nella quale predominavano i libri di soggetto veneziano, gli umoristici, e i pornografici.
Epicureo, nel senso oraziano della parola, il Tassini s’era fatto un suo sistema di comoda vita di vecchio egoista scapolo.
Contava i suoi amici tra gli eruditi e i cultori di studi veneziani; aveva avuto deferenti rapporti con Emmanuele Antonio Cicogna, «vero specchio di erudizione e di cortesia», com’egli ebbe a dire nella prefazione alla prima edizione delle sue «Curiosità»; aveva conosciuto Samuele Romanin, Rinaldo Fulin, Girolamo Dandolo ed aveva avuto con loro relazioni di studio; e così pure con Girolamo Soranzo, continuatore del Cicogna nella «Bibliografia Veneziana», con il Cecchetti, con lo Stefani, con il Veludo. Ma all’infuori del campo degli studi, e all’infuori degli incontri al caffè o alla trattoria, non manteneva relazioni con chicchessia. E nulla chiedeva a nessuno. Aveva le sue rendite: gli bastavano, e n’era pago. Studiava per suo piacere, per soddisfare la sua curiosità di sapere; e scriveva per sua naturale inclinazione; non s’attendeva dal suo lavoro guadagno, né rinomanza, né riconoscenza.
Amava le donne. E poiché era scettico, cinico forse, non chiedeva loro più di quello che egli stesso loro desse di sè; qualche ora d’oblio, nella soddisfazione dei sensi. Egli aveva bandito dalla sua vita ogni ingombro sentimentale: non credeva né all’amore, né all’amicizia, né a nessun’altra astrazione di sentimento umano. E si studiava di avere il minor numero possibile di padroni del suo destino.
Non v’è un padrone assoluto, implacabile, che agisce secondo un suo piano imperscrutabile, e dispone a suo piacere dei mortali, dei loro corpi, delle loro anime, e di tutti i loro beni? Ebbene, quel padrone basta. Non occorre che l’uomo, nel suo breve passaggio sulla terra, se ne crei degli altri minori. E perciò niente famiglia, niente partiti politici, niente impieghi, ‘niente cariche pubbliche.
Abitava, come abbiamo detto, perfettamente solo. Ogni mattina, alle otto, andava a casa sua uno dei «nonzoli» della Basilica di San Marco, un ometto piccolo, mingherlino, glabro, che gli portava il caffè nero, dal vicino Caffè Vittoria, e che gli assettava la casa.
Poi il dottor Tassini — pezzo d’uomo grande e grosso, panciuto, acceso nel volto ornato di folti baffi e di moschetta, con un par d’occhiali rotondi a stanghetta — usciva di casa per recarsi all’Archivio di Stato o alla Biblioteca Marciana, o al Museo Correr, secondo che lo richiedesse il corso dei suoi studi. Soleva far colazione all’osteria dell’Orsetta, in Campo dei Frari, o in qualche altra osteria. Prediligeva, fra le altre, la vecchia «Malvasia» al Ponte dei Greci, per l’eccellente «vin turco» — generosissimo denso ed aromatico vino delle isole greche soggette alla dominazione ottomana — al quale egli soleva mescolare un po’ di «fernet», per aumentarne la forza e correggerne l’aroma. Anche l’osteria all’«Antico Pignolo», in Calle del Forno a San Zulian — un vicolo che s’apre nella Calle degli Specchieri, quasi di fronte al Sottoportico delle Cariole, dove il Tassini abitava — era costantemente frequentata dal nostro erudito gaudente.
Gran bevitore, formidabile mangiatore, negli ultimi anni della sua vita egli s’era straordinariamente impinguato, sicché il camminare gli riusciva alquanto faticoso, ed aveva finito col circoscrivere la sua vita nel breve tratto che corre ira Piazza San Marco e il Ponte della Guerra. Dopo aver pranzato al «Pignolo» s’indugiava nell’osteria a far la partita di «gilè a la grega» con qualche altro avventore dell’osteria, gente modesta e semplice, per lo più, con la quale egli non disdegnava punto intrattenersi. Poi alzava la sua epa monumentale, faceva quattro passi, passava al Caffè dei Segretari, per poi andare a sedersi davanti al Caffè Vittoria, o al Caffè della Nave in Calle Larga San Marco: In quei pressi vera stata anche per lungo tempo la Tipografia Fontana, che aveva stampato più d’uno dei lavori del Tassini. E allora egli vi passava spesso a correggere le sue bozze, a scambiare quattro chiacchiere con lo stampatore. Quando la sua pubblicazione era pronta, ne portava egli stesso le copie da mettere in vendita ai tabaccai della città.
A sera tarda l’erudito buontempone se ne tornava a casa solo, o a rimorchio di qualche ninfa, abbordata al passaggio nei dintorni, frequentatissimi dalle venditrici d’amore.
Di solito, com’egli vedeva una ragazza, che gli pareva confacente al suo gusto, le dava, passando, un bigliettino, sul quale aveva scritto il proprio indirizzo, e l’ora dell’appuntamento. Egli, teneva sempre pronto nelle tasche qualcuno di questi biglietti.
Una mattina, il 22 dicembre 1899, il «nonzolo» di San Marco, giunto con il caffè alla casa del vecchio erudito, suonò ripetutamente il campanello senza ottenere risposta. Poiché ben conosceva le abitudini del suo solitario padrone, il «nonzolo» intuì una disgrazia, corse a chiamare un fabbro, che forzò la porta. Salito nell’appartamento, trovò il Tassini lungo disteso sul pavimento. Era morto di un colpo apoplettico.
Accorsero i vicini, il medico, le guardie, le autorità per le constatazioni di legge. E qualche ora dopo si presentò una donnetta, esibendo il bigliettino dell’appuntamento.
Così finì, a settantadue anni d’età, l’autore delle «Curiosità Veneziane».
Viveva ancora, a quel tempo, a Teolo, in quel di Padova, la cognata del Tassini, la vedova del fratello Giulio. Ma l’eredità del cognato non toccò a lei. Parecchi mesi dopo arrivò dall’ America un cugino, che liquidò l’eredità, vendette case, campi, libri e manoscritti. I libri e manoscritti d’argomento veneziano furono per la maggior parte acquistati dal Museo Correr; tutto il resto andò disperso tra i negozianti di libri vecchi.
Le ossa di Giuseppe Tassini son finite nella fossa comune. E Venezia ha troppo presto dimenticato la caratteristica figura del vecchio erudito. Non una lapide, non un ricordo, non il nome d’una strada lo rammenta alla simpatia riconoscente dei concittadini. Ma più di qualsiasi monumento vale l’opera sua, e specialmente valgono, a tenere viva e cara la memoria, le ghiotte, divertenti, vivissime sue «Curiosità Veneziane».
Elio Zorzi
Note
- Debbo alle diligenti ricerche eseguite. dal Sig. Cesare Zangirolami l’aver potuto rintracciare, negli Archivi dell’Ufficio Parrocchiale Capitolare di Pola, la dichiarazione di nascita di Giuseppe Tassini, registrata alla pag. 34 Vol. II della cessata Parrocchia della I. R. Marina Austro-Ungarica. Nella sua qualità di ufficiale della marina austriaca Carlo Tassini aveva dovuto denunciare la nascita del proprio figlio alla Parrocchia della Marina in Venezia (Chiesa di S. Biagio); nel 1866 i registri di questa parrocchia erano stati trasportati a Pola, e riuniti a quelli della Parrocchia della Marina di Pola. ↩︎
- Francesco Berlan, nato a Venezia nel 1821, morto a Torino nel 1885, fondò nel 1844 la «Società dei bibliofili», che iniziò qualche pubblicazione di classici, ma dovette interrompere il lavoro perché osteggiata dalla polizia. Si dedicò agli studi storici, geografici e araldici. Fu emigrato politico in Piemonte, c divenne professore e preside nei licei regii. Delle sue molte opere il Nani Mocenigo due ne segnala, ne «La letteratura veneziana del Sec. XIX,» come specialmente importanti per la storia veneta: l’una sui Foscari, l’altra sul Carmagnola.
«Ricercò negli archivi — scrive il Nani Mocenigo — la storia dei Foscari, e difese contro gli altrui pregiudizii l’operato della Repubblica Veneta, nella condanna di Jacopo Foscari, dimostrandone la reità … Così nel libro sul Carmagnola, che il Berlan cominciò a lavorare fino dal 1847, pubblicandone un saggio nel 1852, ebbe lo scopo di provare che la Repubblica veneta era stata ingiustamente accusata…». ↩︎ - Gianjacopo Fontana di Giovanni e Caterina Gariboldi, morì d’anni ottanta, pensionato della Congregazione di Carità, in Venezia, dov’era nato e vissuto, addì 10 Gennaio 1885. ↩︎
- Il Fontana fa qui menzione di Francesco Scipione Fapanni, nato a Martellago (prov. di Venezia) nel 1810, morto colà nel 1894. Era figlio di Agostino Fapanni (nato ad Albaredo di Vedelago), agronomo di fama italiana, studioso del diritto e della letteratura italiana e latina. Francesco Fapanni dedicò tutta la’ sua attività all’erudizione storica e artistica. Bibliofilo appassionato e dottissimo, raccolse una biblioteca dantesca, che poi passò in Inghilterra. Lasciò numerose pubblicazioni sulla storia, l’arte e la bibliografia veneziana e trevigiana. Pubblicò tra altro nel 1877 un lavoro sulle denominazioni stradali e sulle lapidi di Venezia. Buon poeta, autore di novelle di sapore classico, stampò un romanzo L’ultimo dei Patrizi veneziani, che Cesare Musatti giudicava dopo mezzo secolo dalla sua pubblicazione «una delle più vive e piacevoli pitture della società veneziana al cadere della Repubblica».
Il Fapanni lasciò molti lavori inediti, ed un prezioso materiale riguardante l’arte, la storia e le bibliografie veneziane e trevigiane, materiale che si trova ora in parte nella Biblioteca Comunale di Treviso, in parte alla Marciana, e in parte presso il nipote del Fapanni, prof. Carlo Combi. Agostino e Francesco Fapanni sono ricordati in una lapide murata in loro onore nel 1928 nell’atrio della sede municipale di Martellago. ↩︎ - Tipo-litografia M. Fontana, Venezia – pag. 73. ↩︎
- L’elenco dell’abate Sante dalla Valentina fu pubblicato da Agostino Sagredo in opuscolo intitolato: «Degli edifici consacrati al culto in Venezia o distrutti o mutati d’uso nella prima metà del Secolo XIX». – Venezia, Gaspari, 1852, in 8°. ↩︎
- In tempi più recenti, per analoghi scrupoli di pudicizia, veniva soppressa la denominazione di Sottoportico del Casin a San Barnaba, ‘sostituendola con quella di Sottoportico di San Barnaba. L’ignoranza di coloro; che chiesero questo mutamento, li aveva indotti a prendere la parola Casin nel significato che attualmente le dà il più basso volgo, cioè di lupanare o bordello. Esso era invece applicato a quel sottoportico nella sua significazione originaria di ritrovo di conversazioni e di giuoco, quali pullulavano a Venezia nel Settecento, e anche nei secoli precedenti, e dai quali è derivata in linea retta la parola Casino con la quale si designano adesso in tutto il mondo certi grandi ritrovi mondani di lusso, ove si giuoca, si danno! spettacoli, e si trovano ogni sorte d’altri pubblici svaghi.
Poiché si tratta di un nome caratteristico, che ricorda una delle tracce, lasciate nel mondo dalla civiltà veneziana, il nome del Sottoportico del Casin a San Barnaba dovrebbe essere fatto rivivere.
Nell’attuale toponomastica il voto di Elio Zorzi è stato accolto, sia pure con una aggiunta. Il sottoportico si chiama ora «del Casin dei Nobili». (N.d.E.) ↩︎ - Nel 1891 il Dott. Luigi Sugana, mandando alle stampe (Tip. F.lli Visentini) un suo opuscolo «Venezia notturna», nel quale illustrava le botteghe di caffè ed altri ritrovi notturni di Venezia, dedicava l’operetta al Tassini con le seguenti parole:
«A voi — Dott. Giuseppe Tassini — maestro — a quanti scrivono di cose — veneziane — modesto buono dottissimo — venerazione di scolaro — affetto di amico — dedicarono questo umile libro». ↩︎ - Il Veridico – Diario Storico Veneziano dell’anno 1892, con almanacco per l’anno 1893, è un opuscoletto stampato nella Tipografia di Lorenzo Tondelli. L’anno dopo (diario 1893 e almanacco 1894) Il Veridico fu stampato nello Stabilimento Tipo-litografico Draghi; il terzo anno infine dalla Tipografia dell’Istituto Coletti. L’attribuzione del Veridico a Giuseppe Tassini è avvalorata dall’indicazione esplicita ‘dello schedario alfabetico della Biblioteca Marciana, scritto di mano del dott. Baroncelli, il quale specifica che i tre opuscoli provengono alla Marciana dall’autore. ↩︎
- Ecco l’introduzione dell’Editore alle «Iscrizioni di S. Salvatore»:
«È noto come l’erudito cav. Emmanuele Antonio Cicogna s’accingesse a pubblicare, illustrate, le Iscrizioni delle Chiese di Venezia, e come, avendo adottato un metodo troppo largo ed esteso; mancasse ai vivi nel 1868, lasciando incompiuto di molto il lavoro. Tra le chiese non ancora illustrate eravi la bellissima di S. Salvatore, dalle cui pietre tanti insigni patrizi, e tanti probi e ricchi mercadanti vengono ricordati. Volle sopperire al difetto il dott. Giuseppe Tassini, uomo conosciuto pel suo amore alle patrie antichità, ed illustrò tutte le Iscrizioni della chiesa suddetta, raccolte dal Cicogna nel suo manoscritto, ora conservato nel Civico Museo, né mancò di aggiungervi le poche iscrizioni moderne. In ciò forse, adoperò quelle brevità di cui diede un saggio nell’illustrare le Iscrizioni della Chiesa e Convento di S. Maria della Carità, e quella della Chiesa e Convento del S. Sepolcro, già nell’Archivio Veneto pubblicate. Quanto all’ordine, seguì quello del Cicogna, giovandosi di qualche annotazione del medesimo. Nella sua fatica però si valse precipuamente del Catasto della Chiesa e Convento di S. Salvatore di Venezia, reperibile nel nostro Archivio «di Stato».
Le notizie sulle «Iscrizioni dell’ex Chiesa, Convento e Confraternita di S. Maria della Carità in Venezia» furono pubblicate nell’Archivio Veneto del 1877. Quelle sulle «Iscrizioni dell’ex Chiesa e Monastero del S. Sepolcro in Venezia» nell’Archivio Veneto del 1879.
Diversi altri studi pubblicò il Tassini nell’Archivio Veneto. Ricordiamo tra gli altri Cinque palazzi di Venezia (Tomo V – parte I.° – 1873); Alcuni appunti storici sopra il palazzo dei Duchi di Ferrara in Venezia, poscia Fondaco dei Turchi (Tomo VI – parte Il®- 1873); Delle abitazioni in Venezia di Pietro Aretino (Tomo XXXI – serie II – parte I° – 1886). Gli studi del Tassini qui elencati riferentisi ai vari palazzi furono poi dall’autore raccolti e rifusi nel volume «Alcuni palazzi ed antichi edifizi di Venezia storicamente illustrati» del quale è cenno a p. XIX. ↩︎ - Ecco il testo della dedica ad Alberto Burini premessa al volumetto:
«Appressandosi il momento in cui devi abbandonare questa città, che sì a lungo abitasti, e che ami cotanto, ho deliberato di offrirti una piccola raccolta di Aneddoti Storici Veneziani. Io mi terrò fortunato se in queste pagine, fra molte cose da altri trattate, e quindi bene a te note, ne potrai ritrovare taluna di nuova. In ogni modo, accogli di buon animo il presente libretto, qual regalo di partenza, e qual memoria di Venezia quando ne sarai lontano. Vivi felice».
Non ci è stato possibile accertare chi fosse Alberto Burini. ↩︎ - I cinque volumi manoscritti sono custoditi nel Museo Correr, sotto l’indicazione «Provenienze diverse, 4 c». ↩︎
- Ecco il testo dell’«Avvertimento».
A compilare le presenti memorie mi sono servito dei materiali seguenti:
I.° Del volume intitolato Privilegi, e dei Misti del Senato ove si ritrovano le concessioni di cittadinanza Veneziana, e molto più dai Processi esistenti nell’Archivio dell’Avogarìa di Comun circa la domanda pell’approvazione della cittadinanza originaria.
II.º Dei Notatori delle soppresse corporazioni religiose.
III.º Dei Testamenti.
IV.º Delle varie nostre cronache cittadinesche che si conservano a penna nella biblioteca Marciana, e nel Museo Civico, ove pure ve ne ha una completa del Cicogna.
Dichiaro di non credere d’aver fatto lavoro perfetto, ma soltanto d’aver raccolto una buona messe di notizie, che; scelte all’uopo e vagliate, possano servire all’utile mio, ed a quello degli altri studiosi.
Venezia, 1888
Dr. Giuseppe Tassini ↩︎ - Giovanni Dolcetti. – Il Libro d’Argento I vol. (in 16°) – Tip. del Gazzettino Venezia 1922; II. vol. (in 16°) Tipo Vittorio Callegari, Venezia, 1925; III vol id. id. 1926; IV. vol. id. id. 1927; V. vol. id. id. 1928. ↩︎
- Non pochi nomi patrizii si ritrovano anche tra il popolo sia per l’uso invalso tra i patrizii di dare il proprio cognome ad ebrei, che si convertivano alla religione di Cristo, e che essi tenevanò al fonte battesimale, sia perché sovente i servi delle grandi casate finivano per esser chiamati col nome padronale. ↩︎
- Acquistato nel 1875 da Lazzaro Benvenisti. ↩︎
- Il sottoportico e la corte delle Cariole sono stati soppressi dalla nomenclatura stradale, perché sono passati in proprietà privata, e sono stati chiusi al pubblico. In omaggio alla memoria di Giuseppe Tassini e per ricordo del nome, vorremmo che sul posto, ove s’apriva fino al 1930 il sottoportico, fosse lasciata l’indicazione Sottoportico e Corte delle Cariole. ↩︎